25 anni di sacerdozio di don Ernesto
Il nostro parroco il 17 giugno scorso ha ricordato i 25 anni della sua Ordinazione presbiterale. Ecco le parole che ci ha rivolto in occasione di questa ricorrenza.
Nella settimana appena trascorsa, assieme ai miei compagni di ordinazione, abbiamo ricordato i nostri primi venticinque anni di sacerdozio. Avrei preferito mantenere nel riserbo questa ricorrenza, ma dato che anche la stampa locale ne ha dato notizia, ritengo giusto ringraziare le persone che in questa circostanza mi hanno manifestato un sentimento di affetto e di condivisione. Colgo questa occasione anche per ringraziare tutte quelle persone che mi assicurano un ricordo nella loro preghiera quotidiana: vi assicuro che si percepisce la grazia spirituale che proviene dalle vostre preghiere. Questa ricorrenza mi ha dato anche l’opportunità di fare qualche considerazione sulla realtà del sacerdozio, anche dopo questo quarto di secolo, vissuto sempre nel servizio diretto di varie comunità parrocchiali, che vorrei condividere con voi attraverso il foglio degli avvisi settimanali.
La domanda che allora mi sono fatto è: chi è oggi il prete? Immagino che ognuno avrà certamente una sua precisa risposta. Accanto ad una chiesa che sta vivendo il non semplice cammino di una conversione pastorale alle nuove urgenze che il nostro tempo ci impone, anche la figura del prete richiede di essere ripensata dentro questi mutamenti. Si parla tanto oggi di unità pastorali (e noi stessi, con fatica, cerchiamo di realizzarla), ma quali effetti ha questa rimodulazione della vita parrocchiale sulla identità del sacerdote? L’essere parroci di più comunità ridisegna inevitabilmente l’identità dello stesso prete. Inoltre occorre aggiungere che quel lento processo, iniziato negli anni settanta, denominato “secolarizzazione”, non ha investito solamente la realtà della vita religiosa, spogliata dei suoi significati spirituali e delle sue tradizioni, ma ha coinvolto la stessa figura del sacerdote. Il venir meno di un
contesto cristiano, il lento ma inesorabile allontanamento dalla prassi cristiana, la perdita della centralità del tempo sacro sui momenti della vita quotidiana, tutto questo e altro ancora hanno delle ripercussioni inevitabili sulla stessa immagine
del prete. Oserei dire che anche a lui è toccato in sorte di subire la stessa spogliazione; anche la sua immagine è stata “secolarizzata”, cioè ridisegnata entro gli schemi della professione, del ruolo, dell’impiego. Il prete è così diventato, agli occhi di tante persone, una professione, un lavoro o peggio un mestiere. E di conseguenza, nella logica del commercio e seconda la legge della domanda e dell’offerta, anche a lui si è iniziato a chiedere delle prestazioni, delle opere (a cui si fa corrispondere un compenso economico: quanto costa?). La figura del prete è entrata nel quadro dei rapporti economici che disegnano la nostra società. Anche altre categorie di persone vivono questo stesso impoverimento. Penso ad esempio agli insegnanti, il cui ruolo è oggi valutato dentro il quadro delle prestazioni (dimenticando che essi non hanno a che fare con materiale inerte, ma con delle persone, tra l’altro nella fase delicata e affascinante della loro crescita).
Si è così venuto ad imporre, nel modo di vedere e di interpretare la vita cristiana, la logica del fare su quella dell’essere: al “tu sei” si è sostituito il “tu fai”. Anzi, il fare, l’agire ha ridisegnato l’essere della persona, al punto che questa è valutata sulle sue competenze, prima che sulla sua identità. Questo, lo ripeto, può essere applicato anche a tante altre categorie di persone, non unicamente al sacerdote. Ma per lui questa distorsione ha delle conseguenze ancora più forti. Forse per qualcuno non vi è differenza tra “fare il prete” ed “essere prete”. Al contrario, mi pare che qui si gioca una differenza essenziale.
Allora, proviamo nuovamente a chiederci: chi è il prete? Il discorso sarebbe molto lungo, ma vado solo per rapide pennellate. Anzitutto la sua identità è mutuata dentro quell’esperienza fondamentale che è stata la vita di Gesù. Mi riferisco in particolare alla realtà del discepolato, che Gesù stesso ha ridisegnato con contorni nuovi rispetto alla prassi del suo tempo. Lì, nel quadro del discepolato, acquista la sua verità ogni vocazione cristiana, in modo speciale quella del sacerdote. Allora, lui è prima di tutto un discepolo, cioè uno che segue Cristo, uno che desidera conformare la sua vita e la sua persona sull’unico modello che è Gesù. In secondo luogo, a lui è affidata una comunità. Colui che segue Cristo lungo la via del sacerdozio è chiamato ad essere “presbitero”, che dall’etimologia greca significa “anziano”. Di essi già troviamo tracce nelle lettere di Paolo. La sua “anzianità” non è anagrafica, ma spirituale ed indica il compito della presidenza. La presidenza, a sua volta, non va pensata a partire dalle immagini della presidenza di natura politica, che caratterizzano i nostri stati. La sua presidenza si manifesta in pienezza nel contesto della celebrazione eucaristica (luogo autentico e principale di manifestazione di tutte le vocazioni, religiose e coniugali): il presbitero è colui che vive la presidenza di una comunità, nella quale svolge il ruolo non di animatore di attività, ma di guida e di aiuto nel cammino di ognuno. A lui la comunità si rivolge per la celebrazione dei sacramenti, perché la sua presenza è garanzia di comunione con tutta la chiesa universale: il sacerdote quando celebra, quando amministra i sacramenti, quando annuncia la Parola, è segno che quella piccola comunità è in comunione con tutta la chiesa e in modo speciale con il suo Vescovo e con il Papa. Lui per primo, infatti, deve vivere una comunione profonda con il suo Vescovo ed essere fedele al magistero e agli insegnamenti del Papa. Infine (ma il discorso è veramente molto più lungo) egli è l’uomo che annuncia la Parola, che presiede cioè le due mense: quella della Parola (liturgia della parola) e quella dell’Eucarestia (liturgia eucaristica: sono le due parti di cui è composta la messa). Da ultimo è anche l’uomo della Misericordia, a cui è affidato il compito di annunciare al peccatore “ora va in pace: i tuoi peccati ti sono perdonati”. Chi perdona è unicamente Dio, nessun uomo ha questa autorità. Dio però, nella sua volontà, ha voluto che questo annuncio non rimanesse confinato nel silenzio della propria coscienza, ma
che vi fosse un altro fratello a darti questa lieta notizia.
Allora vi chiedo, nel ricordo dei miei venticinque anni di sacerdozio, aiutatemi prima che a fare, ad essere prete! Questo è il dono più bello.